viernes, 27 de febrero de 2009

“QOQSO MAKI ES ESTO, CADA UNO ELIGE”


Con queste parole Javier conclude la chiacchierata con Luis Alberto.
Siamo tutti e tre nel nostro ufficio, io, due educatori e il ragazzo. Abbiamo cercato questa conversazione perché sono più giorni che Luis Alberto arriva al dormitorio con chiari segni di aver inalato terokal. La norma in questi casi è che il ragazzo si faccia una doccia (fredda) e che dorma separato dagli altri, in uno stanzino più scomodo, chiamato l’ "almacen". Ma non basta. Chiaramente non bastano le sanzioni per vincere quella che è per molti è un’abitudine ben radicata. Il terokal è un tipo di colla, di solito si usa per le calzature, costa poco, dai 3 agli 8 soles il tarro. L’uso di questa sostanza è una realtà di tutti i ragazzi che in un modo o nell’altro vivono la strada.
Quasi sembra sia una tappa obbligata, i ragazzi più grandi invitano i più giovani a provarlo. In alcuni casi i ragazzi lavorano giusto le ore necessarie per comprarsi il loro tarrito. Il resto del tempo lo passano "volando", allucinando con gli effetti delle sostanze chimiche che compongono il terokal. Per di più "jalar", inalare terokal, dà una sensazione di sicurezza, molti lo usano per darsi il coraggio di rubacchiare, altri per non sentire la fame, altri ancora il freddo.
I motivi che spingono a provarlo sono diversi, ancora non credo di essere riuscita a capirli, ma è una esperienza che la maggioranza dei ragazzi vive almeno una volta nel mundo de la calle.
Qosqo maki a differenza di altri hogares non chiude le sue porte a chi fa uso di questa sostanza, le regole sono chiare e le conseguenze per chi viene "tekeado" pure. Ma non basta torno a dire. Per questo stasera ci siamo seduti con Luis Alberto a parlare, per capire, e perché lui per primo capisca cosa vuole.
La grande qualità e allo stesso tempo il grande limite di Qosqo maki è questo, è uno spazio libero in cui ognuno decide SE entrare, e COME approfittarne.
Dopo essersi alzati, aver fatto colazione (magari qualcuno pure una doccia anche se non è una delle pratiche più in voga) e aver svolto ognuno la propria parte nella pulizia dei diversi ambienti, tutti escono. Qualcuno lavora (cantando, lustrando zapatos, vendendo caramelle), altri rubacchiano, altri come Luis Alberto racimolano 2 soldi e si vanno a comprare il loro terokal. Sono i ragazzi che scelgono la loro opzione. Per qualunque tipo di necessità siamo a loro disposizione, sempre e quando sia una loro volontà.
E’ una filosofia di pensiero molto stimolante, si cerca di considerare ogni ragazzo o bambino come una persona in grado di prendere le decisioni che lo riguardano, però allo stesso tempo molto frustrante, i "risultati"del lavoro quotidiano non sono sempre palpabili.
Per i ragazzi di Qosqo maki è difficile pensare al futuro, fanno fatica ad immaginarsi tra qualche anno, non concepiscono l’idea di costruire qualcosa, preferiscono soddisfazioni immediate e a portata di mano. Abbiamo un bel da fare a proporre scuola, visite mediche, talleres de capacitación, alla fine son sempre loro, i nostri ragazzi, ad avere l’ultima parola, dipende da loro lo svilupparsi delle nostre proposte.
Sono loro che devono imparare a prendersi cura di loro stessi, visto che nessun altro lo fa.
Ognuno è libero di scegliere, e a noi non resta che parlare con loro, sperando che almeno qualcuna di quelle parole arrivi a toccare una corda sensibile, stimoli delle scelte che portino a migliorare la loro situazione, per poter immaginare un futuro diverso dalla strada.
Qosqo maki es esto, cada uno elige.

Cusco, 16 Febbraio 2009.


Carla.




martes, 24 de febrero de 2009

Cajamarca

Cajamarca è bella.
Le montagne troneggiano contro il sole all'alba. Ci sono mille chiese, grandi, imponenti, piccole, semplici e bianche. Ci son le campesine con le loro pollere dai mille colori fucsia, blu e rosso, con i loro bambini sporchi e felici appesi al collo.
C'è il cielo, Dio ilcielo è qualcosa di incredibile. Che ci sia il sole o la pioggia il cieloè sempre stupendo. Azzuro con enormi nubi; basse, enormi e bianche , bianche di latte.
Poi c'è la gente, sempre pronte ad un sorriso e con una storia allucinante da raccontarti.
Cajamarca è strana.
Si possono vedere jeep enormi sfrecciare al fianco di vacche campesine curve sotto il peso del raccolto e dell'oppressione.
Di notte si può vedere la luce della mina bruciare l'oscurità come un mostro che veglia e controlla e la città. Si può canare tutta la notte, sotto la pioggia amando gente che non si conosce.
Qui si può incontrare gente nata con il terorismo e cresciuta con la dittatura. Gente pazza, alcolizzata e gente che è stata torturata dalla polizia e ormai troppo abituata alla violenza.
Cajamarca fa male.
Si fa male sentirsi dire da una bambina che non andrà alle scuole medie perchè in famiglia non ci sono soldi o perchè suo fratello è in carcere.
Fa male vedere i bambini, i tuoi bambini venderti una bottiglia di vino alle cinque del mattino mentre qualcuno si prende a bottigliate.
Fa male quando scopri che la miniera asseta la gente per un sacco di riso.
Cajamarca ormai è casa mia.
Si mi ha ospitato per quattro mesi e mi ha coccolato come una nonna. Cajamarca mi ha fatto ridere e piangere, mi ha accudito questi mesi e lo farà per molti altri.
Cajamarca è semplicemente Cajamarca.

Andrea.

lunes, 16 de febrero de 2009

Niños libres

9 febbraio 2009

Giornata amara. Giornata da ammazzarli quei figli di cani, quei sequestratori di vite, quei meschini.

Giornata di polizia ignorante, giornata di sguardi e le mani che prudono.

Oggi la polizia non mi ha fatto entrare nell'albergue dove lavoro, perché do fastidio, perché parlo con i ragazzi dei diritti, di come difenderli e difendersi. Perché noi non parliamo di quanto è bravo e buono il padre eterno, ma guardiamo in faccia alla realtà, dura, che ha bisogno di ragazzi coscienti e forti per cambiarla.

E questo, a tutto ciò che è potere, polizia, non piace. Perché questa gente vive nel miedo, vive guardandosi le spalle. Dei ragazzi non gli importa nulla, se non che stiano lì reclusi senza motivo, così che gli diano lavoro.

Sono capaci di farti uscire dal cuore i peggiori istinti, che oggi se avessero aperto quella porta li avrei colpiti al volto, avrei incitato i bambini a scappare, via di qui. Liberi da ciò che è stato, liberi da ciò che è galera.

Di nuovo liberi di vivere la propria esistenza. Fuori da là, di nuovo dentro se stessi.

Niños libres.

Come mai, oggi mi sento parte della loro causa, mi sento che sto da una parte, senza essere un gringo ma semplicemente perché in quell'albergue ci sono degli amici, dei bambini che potrebbero essere i miei figli.

Davide

martes, 10 de febrero de 2009

¿DONDE ESTÁN TUS HERMANOS?

Mentre siamo in cammino verso Ate Vitarte, Lima si sveglia pigramente.
Tutto é come sempre, come ogni mattina dai chioschi pendono le prime pagine dei quotidiani e i cobradores urlano dalle combi
[1] il loro percorso, acrobati temerari nel traffico della capitale.
Nessuno sembra essere cosciente del momento storico che sta vivendo il paese: ci stiamo dirigendo verso la DINOES, centro militare, nel quartiere di Ate Vitarte, Lima, Perú. Qui sta volgendo al termine il processo all’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori, iniziato piú di un anno fa.
L’accusa: crimini di lesa umanitá in quanto mandante intellettuale dei massacri della Cantuta e di Barrios Altos.
La Cantuta, universitá di Lima: alba del 18 luglio 1992, membri del Servizio di Intelligenza dell’Esercito irrompono nei dormitori e sequestrano nove studenti e un professore. Nessuno di loro é piú tornato. Un nome su tutti: Raída Condor. Madre coraggio, in lotta da vent’anni, ha visto i suoi capelli imbiancare giorno dopo giorno senza trovare un corpo su cui piangere. Ha saputo che Armando era tra quei nove studenti perché il mazzo di chiavi trovato nella fossa con altri resti umani, ha aperto la porta di casa sua. Posso solo intuire quanto le spalle di Raida si siano fatte pesanti in quell’istante. Voglia di chiudere gli occhi e riaprendoli trovarsi ovunque nel mondo ma non lì, non in quel momento.
Barrios Altos, quartiere di Lima: ore 22:30 del 3 novembre 1991, agenti del Servizio di Intelligenza dell’Esercito assassinano a colpi di pistola 15 persone durante una pollada, tipica festa con musica e grigliata organizzata tra vicini per raccogliere fondi. Un nome su tutti: Rosa Rojas, madre di Javier, 8 anni, ucciso con suo padre Manuel Isaías, 33 anni. 130 le pallottole trovate nel luogo del massacro; quattro i feriti, di cui uno condannato a trascorrere il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle, con varie pallottole nel corpo.
La lotta ha il volto di donna. Madri, sorelle, mogli.
La domanda imperativa, pronunciata per loro dall’avvocato Gamarra, a pochi passi da Fujimori : “­¿Donde están tus hermanos?” “Dove sono i tuoi fratelli?”.
Impassibile l’ex presidente, viso di pietra chinato sul foglio, sul tavolo una penna e due evidenziatori, scrive senza sosta. Cosa scrivi presidente? Nessun moto d’emozione, nemmeno quando Gamarra fa scorrere le foto delle vittime; né uno sguardo né un impercettibile movimento.
Tra il pubblico invece la commozione scorre palpabile e incontenibile: numerose le lacrime che scorrono sui volti coraggiosi di Raída, Rosa, Gisella, Pilar, Carmen, Norma.
Mani che si stringono, abbracci che consolano e che danno forza, carezze di chi prova il tuo stesso dolore. Senza veritá non ci sará giustizia. Presidente, ¿Donde están tus hermanos?
Frazione, porzione minima di una tragedia di tanti, sto avendo l’occasione di vivere da vicino; 69 mila le vittime fatali e i desparecidos in vent’anni di conflitto interno, qui in Perú, tra il 1980 e il 2000.
Numero infinitamente superiore ai desparecidos di Argentina e Chile messi insieme, eppure il mondo non sa, non conosce, ignora.
Un popolo in ostaggio tra due fuochi, l’esercito e le forze armate da un lato e l’organizzazione terroristica Sendero Luminoso-PCP Partito Comunista del Perú dall’altro.
Violenza selettiva, iniqua, mirata: il 40% delle vittime viveva nel dipartimento andino di Ayacucho, il 79% in zone rurali, il 75% parlava solo quechua
[2]; il conflitto ha esasperato le disuguaglianze etniche e culturali che ancora dividono il paese.
Un popolo che si accorge della tragedia solo quando la capitale ne é colpita, nel cuore della sua classe medio alta, come svegliandosi da un sogno.
Non tutte le vittime hanno lo stesso peso.
Non chiedono molto Raìda e Rosa, solo giustizia. Nessuna delle vittime di Cantuta e Barrios Altos era terrorista, ingiustamente sono stati strappati dai loro letti, ingiustamente sono stati torturati, ingiustamente i loro corpi sono stati bruciati, ingiustamente hanno sparato sui loro volti, ingiustamente le loro famiglie stanno soffrendo la loro assenza.
Le Forze Armate nell’affrontare le offensive dei gruppi terroristi, hanno ceduto a una pratica sistematica e indiscriminata di violazione dei diritti umani: esecuzioni extra giudiziali, sparizioni forzate, torture, massacri, violenze sessuali. Abuso di potere, rabbia cieca, necessità di colpire el mucchio, spesso con il benestare di gran parte della popolazione.
Armando e Javier non erano terroristi.
Momento storico quello che sta vivendo il Perú, quasi senza accorgersene; occasione incredibile la mia, essere presente qui ed ora.
Che le vittime trovino riposo, che le loro famiglie trovino pace, che il Perú faccia giustizia, che io possa tornare in Italia orgogliosa di esserci stata quel giorno in cui, in uno dei tanti paesi che siamo soliti chiamare in via di sviluppo, fu condannato un ex dittatore, e con lui il suo governo corrotto e violento.


Elisa.









[1] Tipico mezzo di trasporto.
[2] Lingua originaria delle Ande